Piano Socio Sanitario: Cota non ci convinci

Il Piano socio sanitario – di ormai prossima approvazione in Giunta e che è stato illustrato oggi dall’Assessore Monferino – ha come cuore della proposta lo scorporo degli ospedali dalla gestione diretta delle ASL, che si concentrerebbero nella funzione di tutela dei cittadini e di sviluppo dei servizi territoriali. E’ quindi previsto lo scorporo dei presidi ospedalieri dalle rispettive aziende sanitarie locali e la loro aggregazione nell’ambito di aziende ospedaliere o ospedaliere/universitarie.

Si tratta di un modello simile a quello realizzato nella sola Lombardia, che comporta un cambiamento radicale dell’organizzazione.

Ma siamo proprio sicuri che il nuovo modello funzioni meglio? Risposta, che è argomentata nel mio articolo allegato: sono sufficienti altre misure, se ben realizzate, mentre c’è motivo di dubitare che la “rivoluzione Cota” porti vantaggi. Anzi è probabile che essa porti complicazioni, minore libertà di scelta, comportamenti opportunistici, maggiori costi amministrativi.

Su questo punto sicuramente daremo battaglia.

 

 

ALLEGATO

 

LA  PROPOSTA  COTA  IN  SANITA’

DI  SEPARARE  OSPEDALE  E  TERRITORIO :

PERCHE’ NON  CONVINCE

 

Cota vuole cambiare il modello organizzativo

 

Conla D.g.r. 51-1358 del 29/12/2010la Giunta Cotaha avviato un processo per modificare l’attuale modello di organizzazione previsto in Piemonte, realizzato finora in coerenza con le Leggi quadro nazionali (d. lgs. 502/1992 e 229/1999). Tale delibera è propedeutica ad un nuovo Piano socio-sanitario regionale, che dovrà essere necessariamente approvato sia perché è scaduto quello 2007/2010, sia in quantola Leggeregionale  18/2007 prevede che sia il Piano a definire i criteri generali per l’organizzazione, il dimensionamento ottimale, la distribuzione territoriale, l’articolazione dei servizi, alla luce di eventuali criticità del sistema.

L’intento – ribadito in molte interviste e nel Piano di rientro definito con il Governo – è chiaro: si prevede “lo scorporo degli ospedali dalla gestione diretta delle ASL e la chiara concentrazione, in capo alle aziende sanitarie locali, della funzione di tutela dei cittadini e di sviluppo dei servizi territoriali”. E’ quindi previsto “lo scorporo dei presidi ospedalieri dalle rispettive aziende sanitarie locali e la loro aggregazione e classificazione funzionale, sulla base dei flussi di mobilità e delle aree su cui gravitano, nell’ambito di aziende ospedaliere o ospedaliere/universitarie”. In questa prospettiva, in allegato alla delibera, sono indicati i presidi capofila delle nuove aziende ospedaliere-universitarie e tutti gli altri presidi ospedalieri cosiddetti “afferenti”. Si tratta di un modello simile a quello realizzato nella sola Lombardia, che comporta un cambiamento radicale dell’organizzazione.

 

Perché si intende modificare l’organizzazione

 

Le ragioni di questa scelta sono riconducibili all’esigenza di realizzare maggiore efficienza, così da ridurre l’integrazione regionale al Fondo sanitario nazionale (come richiesto dal Piano di rientro stipulato tra Regione e Ministeri) e ottenere magari ulteriori margini per miglioramenti nella qualità. Obiettivo evidentemente condivisibile, ma che si accompagna a due domande: serve proprio una rivoluzione negli assetti organizzativi, o basterebbero altre misure? Siamo proprio sicuri che il  nuovo modello funzioni meglio? Risposta, che sarà di seguito argomentata: sono sufficienti altre misure, se ben realizzate, mentre c’è motivo di dubitare che la “rivoluzione Cota” porti vantaggi. Anzi è probabile – come si proverà ad argomentare di seguito – che essa porterebbe complicazioni, minore libertà di scelta, comportamenti opportunistici, maggiori costi amministrativi, ecc.

 

Alcune misure per recuperare efficienza

 

Le misure per recuperare efficienza sono note e in parte perseguite anche dalla nuova amministrazione di centrodestra. Va ricordato come nella scorsa legislatura siano state fatte alcune scelte importanti in questo senso, come la riduzione da trenta a ventuno del numero di aziende sanitarie, la costituzione di centrali per acquisti collettivi, un importante lavoro sulla prevenzione e molto altro. I migliori risultati, negli anni 2005-2010, si sono peraltro avuti sul fronte dell’efficacia.

La sfida dell’efficienza va dunque certamente continuata; misure perseguibili sono, ad esempio:

  • aiutare le persone a mantenersi in salute e quindi a non utilizzare i servizi sanitari, influendo sugli stili di vita, migliorando la sicurezza sui luoghi di lavoro, la sicurezza alimentare, potenziando gli screening e la lotta alle malattie infettive;
  • realizzare una forte rete di servizi territoriali preventiva delle acuzie;
  • riprodurre in modo generalizzato le pratiche migliori realizzate in ogni comparto;
  • adottare ovunque costi standard e ridefinire le tariffe di ogni singola prestazione, prendendo a riferimento gli standard medi internazionali e il nomenclatore tariffario nazionale;
  • eliminare le strutture e i reparti poco utilizzati, o pericolosi per la salute, o doppi;
  • razionalizzare i costi amministrativi;
  • ottimizzare l’utilizzo delle sale chirurgiche;
  • utilizzare razionalmente il personale anche attraverso metodi uniformi per la definizione degli eventuali esuberi e della mobilità;
  • adottare, dove possibile, contratti di fornitura aperti per assicurare la fruizione delle condizioni di migliore convenienza per i prodotti standard;
  • utilizzare quando opportuno le forme specifiche di contrattazione più convenienti (es. i contratti di riuso nel software);
  • definire più strette procedure di controllo sui farmaci, specie quelli costosi, e favorire la distribuzione “in nome e per conto” delle Aziende sanitarie da parte delle farmacie;
  • redigere programmi che portino al pieno utilizzo dell’attuale offerta pubblica presente e accedere quindi a complemento all’offerta nonprofit o privata;
  • estromettere gli interessi impropri nella gestione del sistema sanitario regionale, ad esempio incaricando figure terze nell’ambito dell’amministrazione regionale incaricate di acquistare le prestazioni;
  • migliorare ovunque l’appropriatezza, ad esempio nei percorsi di post-acuzie per gli anziani;
  • avvalersi del supporto di percorsi clinici consolidati, non limitando la libertà del medico di seguire i percorsi terapeutici ritenuti più opportuni ma fornendo una guida operativa utile nella maggior parte delle situazioni;
  • semplificare i passaggi burocratici, ad esempio, riducendo il numero dei casi in cui gli accertamenti clinici, richiesti dallo specialista, siano formalmente richiesti dal medico di famiglia;
  • contrastare l’abuso di servizi di analisi, diagnostica, riabilitazione, alimentato anche da interessi privati poco nobili o da errate convinzioni personali;
  • prevedere una progettazione modulare, da riprodurre, di ospedali e poliambulatori, acquistando e poi adattando modelli standard e valutando l’opportunità di affidamenti complessivi di progettazione e costruzione quando questo porti alla riduzione significativa dei tempi complessivi di realizzazione.

 

L’elenco potrebbe certo lungamente continuare e ci vorrebbe ampio spazio per argomentare ogni misura sopra citata. Qui interessa solo far notare che queste e altre misure sono state finora – dall’attuale governo regionale di centrodestra – considerate e perseguite solo in parte, rispetto al principale obiettivo di cambiare radicalmente l’organizzazione.

 

La rete degli ospedali e il modello hub/spoke

 

Secondo Cota, Ferrero, Zanon e Monferino la vera sfida è quella di mettere insieme tutti gli ospedali sotto il governo di sei ASO e di organizzarli gerarchicamente sul modello degli aeroporti, attraverso una divisione dei compiti. Come vi sono aeroporti con vocazione intercontinentale (hub), così vi sarebbero alcuni ospedali “di riferimento” ai quali farebbero riferimento gli altri ospedali (spoke).

Ma a quale modello di hub ci si riferisce? Lo Charles De Gaulle a Parigi gestisce tutti i voli intercontinentali e ospita i voli nazionali strettamente nella misura in cui sono previsti per connettersi ai voli internazionali. Gli altri voli senza scalo arrivano in altri aeroporti parigini. Roma Fiumicino invece fa da scalo internazionale, ma anche da aeroporto per tutti o quasi i voli nazionali che arrivano nella capitale. Ci si domanda: a quale modello ci si riferisce? Al De Gaulle o a Fiumicino? Per esemplificare: ospedali come le Molinette faranno tutto (come Fiumicino), oppure si concentreranno su alta complessità, insegnamento, DEA di secondo livello, potendo contare sulle specialità ordinarie nella misura strettamente necessaria alle funzioni succitate (come il De Gaulle)?

La questione, nei loro atti ufficiali, al momento non è approfondita. Ma è evidente che va chiarita. In un caso (modello Fiumicino) gli ospedali “generalisti” e di comunità rischiano progressivamente di perdere peso e di diventare satelliti di pochi grandi ospedali. Nell’altro caso (modello De Gaulle) ci potrebbe essere una più chiara divisione dei compiti, rispetto a oggi. Una divisione dei compiti ragionevole e, anzi, auspicabile.

La sfida dell’efficienza, in effetti, si gioca sulla necessità di definire con chiarezza chi fa cosa. Per definirlo non servono voli pindarici, ma basta applicare compiutamente il modello di organizzazione previsto dalle leggi nazionali: le Aziende Sanitarie Locali (ASL) garantiscono al cittadino i normali servizi: il medico di famiglia, lo specialista, l’assistenza al domicilio, la casa di riposo, l’ospedale, gli interventi di post acuzie. Le Aziende Sanitarie Ospedaliere (ASO) sono invece previste per garantire l’insegnamento universitario, per realizzare servizi ospedalieri di alta complessità (es. cardiochirurgia, trapianti, neurochirurgia, oncologie complesse) e per affrontare le emergenze più complesse (DEA di secondo livello); le specialità ordinarie nelle ASO andrebbero quindi previste solo nella misura necessaria a realizzare quanto sopra.

Si tratta di un modello semplice e logico; basta che ciascuno faccia bene il suo compito, evitando di fare il mestiere degli altri e doppioni, eliminando le strutture poco produttive e facendo invece squadra.

 

Perché non funziona il modello Cota

 

Dunque è utile, anzi necessario, definire il chi fa cosa tra gli ospedali, mettendoli chiaramente in rete. Ciò peraltro è già sovente avvenuto in questi anni negli ospedali di ASL, a seguito degli accorpamenti delle stesse Aziende Sanitarie Locali. Di più: è anche ragionevole – come peraltro prefigurato anche in alcune ipotesi formulate nel confronto tra le forze di centrosinistra nella scorsa legislatura – definire alcune “aree radianti”, specie in provincia di Torino, entro le quali gli ospedali debbono lavorare in rete.

Ciò che invece appare irragionevole è far evolvere il disegno verso un esito di cambiamento radicale come quello prefigurato, con la volontà di separare l’ospedale dal territorio. Tra i possibili rischi che tale forzatura determinerebbe, mi limito ai seguenti.

Confusione, disagi e maggiori costi nel breve periodo. Solo due anni fa sono state accorpate le ASL, con complessità organizzative non ancora risolte completamente. Se andrà avanti la nuova proposta, molti operatori dovranno cambiare Azienda sanitaria. Dovrà essere fatto un faticoso e costoso lavoro per l’accertamento e il passaggio dei valori patrimoniali. I cittadini saranno disorientati. I contratti di lavoro dei lavoratori degli ospedali accorpati si allineeranno sui valori più elevati.

Più difficile la continuità ospedale-territorio. Ad esempio, oggi lo specialista (l’otorino, il ginecologo, l’ortopedico, l’oculista) lavora in ambulatorio, in ospedale, al domicilio, con un unico coordinamento pressola ASL. Secondoil nuovo modello, diventerà invece dipendente dall’ASO ma, se dovrà fare servizi territoriali o domiciliari, dovrà rispondere all’ASL. Altro esempio: il medico di base oggi può essere chiamato in ospedale per ridurre le code ai pronti soccorso. Se passasse il nuovo assetto, quella presenza in ospedale sarebbe più complicata. Le dimissioni post-ospedaliere si complicherebbero: il previsto dipartimento per le fragilità tra ASO e ASL non è altro che l’ammissione di questo rischio.

Comportamenti opportunistici da parte delle ASO. Se, come viene proposto, saranno le ASL ad avere il budget e a comprare i servizi ospedalieri dalle ASO, queste ultime saranno poco portate a risparmiare, ma anzi cercheranno di fatturare di più, magari inventandosi ricoveri o prestazioni inutili, per giustificare i costi e coprire le inefficienze. Viceversa, se tutta la filiera dei servizi resta in capo alla ASL, il suo direttore è portato a realizzare servizi meno costosi di quelli ospedalieri.

Più oneri amministrativi. Le prestazioni ospedaliere sarebbero oggetto di contrattazione continua, di frequente contenzioso, di fatturazione da parte delle ASO; quindi determinerebbero maggiori costi amministrativi, di transazione e per i controlli.

Meno concorrenza. La libera scelta di cura, sbandierata da Formigoni come un grande diritto, verrebbe in Piemonte largamente meno, visto che si prefigura un modello dove, di norma,la ASLacquista la prestazione ospedaliera dalla ASO limitrofa o territorialmente coincidente. Non siamo tifosi della concorrenza in sanità ma, visto che la libera scelta è normalmente bandiera del centrodestra, si evidenzia la contraddizione. A meno che tutto il disegno sia propedeutico a ridurre l’offerta pubblica per fare entrare maggiormente i privati. Si noti come in Lombardia il modello (a cui Cota si ispira) tiene a fatica e solo perché là è forte l’offerta dei privati, profit e non, e perché il turismo sanitario” dalle altre regioni italiane è rilevante. Cosa, quest’ultima, improbabile per la seppur molto buona sanità piemontese.

Gigantismo delle ASO, nanismo delle ASL. Gli assetti prefigurati prevedono ASL di provincia con poche centinaia di dipendenti e grandi ASO con parecchie migliaia: un’evidente disomogeneità frutto degli equilibri della geopolitica, non di una valutazione sul dimensionamento ottimale.

Gli ospedali di territorio rischiano di essere progressivamente svuotati a favore dei grandi ospedali, come già sopra prefigurato se prevalesse il “modello Fiumicino”.

I Sindaci dei Comuni non potranno più dire la loro sugli ospedali delle loro città, poichéla Conferenzadei Sindaci si potrebbe occupare solo di prevenzione e territorio.

Penso che la proposta del centrodestra sia frutto di calcolo politico così sintetizzabile: se razionalizziamo noi, dall’Assessorato alla sanità, paghiamo molto in termini di consenso; il “lavoro sporco” facciamolo fare ai direttori delle ASO. Ma sarebbe un disegno cinico e autolesionista per i piemontesi.

 

Conclusioni

 

Si è provato con queste poche note a dimostrare come la sfida dell’efficienza, da affrontare anche da parte delle forze di opposizione, possa trovare molte piste di applicazione.

La gerarchia e l’integrazione tra ospedali è, invero, una parte importante di questa sfida, ma può essere affrontata senza sconvolgimenti, semplicemente applicando quanto disposto nelle leggi istitutive del Servizio Sanitario Nazionale: ospedali di alta complessità e di insegnamento presso le Aziende Sanitarie Ospedaliere; ospedali generalisti e di comunità presso le Aziende Sanitarie Locali. E può essere affrontata con una capace azione di integrazione da parte dell’Assessorato regionale. Si può, insomma, migliorare l’efficienza, senza inutili rivoluzioni del modello organizzativo.

 

Stefano Lepri

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